Afghanistan 1972


Dov’è l’Afghanistan?

 

„In Afghanistan? Ma dov’è?“ Fu pressappoco questa la mia risposta alla proposta di Mariola. Le mie conoscenze geografiche a quel tempo non erano molto solide, ma a mia discolpa devo aggiungere che allora, la primavera del 1972, era un paese di cui non si parlava affatto, noto per lo più ai fumatori di hashish per cui il lungo viaggio valeva bene gli spinelli a buon mercato. Molte persone si sarebbero trovate come me in difficoltà, dovendo segnarlo su una carta dell’Asia. L’idea era stata di Gianfranco e non so come gli fosse venuta. Risposi di sì prima ancora di consultare l’atlante: certo che ci sarei andata, come no, e perché il gruppo non fosse sbilanciato invitai Giulio a farmi da partner per il viaggio. In quattro dunque, ventenni o poco più, zaino da montagna trasformato in ruckpack, abito lungo “folk” comprato tra i saldi alla Rinascente, breve preparazione alla cultura del paese, anzi dei paesi, perché il nostro viaggio prevedeva un’andata in aereo a Kandahar e un ritorno per terra fino a Istambul. Il nostro inglese zoppicava un po’ – nessuno di noi l’aveva studiato a scuola -, ma Gianfranco era un mago della comunicazione e bastava per tutti. Pronti per la prima avventura asiatica. 


 Kandahar

È ancora notte; sotto nessuna traccia di città. Non una luce. Siamo davvero arrivati? E l’aeroporto dov’è? Le luci della pista si accendono quando siamo a poca distanza da terra. Un corridoio di luci in mezzo al buio della steppa. Afghani insonnoliti si arrotolano il turbante e ci indicano qualcosa. Immigration office. Il primo chiarore sulla steppa. Un taxista mezzo addormentato ci fa entrare tutti e quattro, noi e i nostri zaini, e ci porta alla stazione dei bus. La strada è dritta e deserta, ormai in piena luce. Alle fermate sciami di ragazzini si affollano davanti all’entrata del bus per vederci. Fanno quel gesto, l’imitazione manuale dell’obiettivo – non sapremo mai se è una presa in giro o se invece è la richiesta di fotografare proprio loro -, vengono cacciati, corrono via ridendo, a piedi nudi, in ciabatte di plastica, turbanti spropositati sulle teste da ragazzini.


 

 

Ghazni

poco più di un villaggio (o è la memoria che mi riporta così la città, rimpicciolita, polverosa, le case basse? Aveva invece un’altra realtà popolosa?). Il minareto sembrava spuntare dai campi color sabbia, un ottagono, le decorazioni sui laterizi erano state divorate dal vento. Il minareto oggi non c’è più, è crollato insieme al suo gemello. 


 Kabul

Ci arriviamo seduti sul tetto di un pullman dopo aver inutilmente cercato di conquistare un po’ di spazio all’interno. Scopriamo un bazar orientale. Proviamo, noi donne,  un chador rosso. Al museo scopriamo la civiltà del Gandhara: i Buddha con i manti pieghettati alla greca, espulsi dalla vita di ogni giorno, sono stati confinati nel museo.

Del paese che ci accoglieva allora, alla fine del luglio 1972 – per niente affatto benevolo, duro, invece, arso, un paese che sembrava più respingere che invitare i forestieri – che cosa è rimasto, oggi? A tutta prima, a giudicare dalle scarse foto che ritraggono per una volta la popolazione civile invece dei soldati, l'Afghanistan non sembrerebbe cambiato molto: gli stessi abiti, gli stessi ragazzini stracciati, gli stessi turbanti, gli stessi burka colorati di allor. Anche un tempo c’erano quasi solo uomini in giro, al bazar, nei negozi, un paese di uomini; le donne, quelle poche che sorprendevamo per strada - oh, la pellicola in bianco e nero che nega i colori, proprio in Afghanistan dove i burka esplodono come fiori in mezzo alla sporcizia! - si nascondevano il viso, se già non l'avevano coperto. Non si direbbe cambiato per nulla. E invece, prova a digitare il nome del paese su google: ne vengono fuori soldati e ancora soldati, un paese in armi, un paese in guerra da decenni. La differenza più grande tra oggi e allora è forse questa: noi abbiamo attraversato un paese che, se non era veramente in pace – ci saranno state faide tra tribù, vendette, ma noi non le vedevamo - non era però in guerra; scorgevi sui visi degli uomini l’orgoglio dei guerrieri, ma non li incontravi armati di mitragliatrice o con la cintura di munizioni a tracolla.  



Bamian

Fu un viaggio travagliato quello per raggiungere Bamian. Noi che incanti dalla bellezza del luogo non ci stancavamo di percorrerlo cercando la migliore prospettiva, non correvamo allora il rischio di inciampare su una mina e saltare in aria.

 

Per non parlare dei Buddha di Bamian. Un viaggio lunghissimo per arrivarci, ma poi all’improvviso la valle orlata di pioppi; si sale fino ai Buddha giganteschi scolpiti nella roccia su gradini intagliati nella roccia, sfidando le vertigini, fino ad arrivare dietro la testa delle statue. Da lì si vede la valle con la striscia di verde dove scorre il fiume, un verde ancora più smeraldo in mezzo all’ocra sabbiosa del resto. In fondo montagne gialle rosse e grigie. Gli uomini a cavallo portano una donna avvolta da un chador: è un corteo di matrimonio, ci dicono.  


Oltre a Bamian, saliamo, su su fino ai laghi del Band-E-Amir. Qui cito il diario di Mariola: “Sono come altopiani svuotati e riempiti come catini; l’acqua fuoriesce in più lati con cascate: Attorno, su tre lati, montagne rosse precipitano a picco nei laghi dando all’acqua una sfumatura di viola.

 

Visita alla città rossa, tra vallate verdi di grano attraversate da fiumicelli, 

 

Mazar-E- Sharif

Ci arriviamo in bus. Lo splendore della Moschea azzurra, sorella di quelle che vedrò molti anni dopo a Samarcanda. E qui un episodio: sono seduta a gambe incrociate sul fianco della moschea, forse un po’ separata dagli altri, quando d’un tratto mi piove in grembo una rosa. Mi guardo in giro, stupita, incerta sul significato di quel gesto in un paese di uomini che chissà come considerano le straniere, ma l’uomo che l’ha fatto si è ormai confuso con la folla di pellegrini e visitatori nell’ampia piazza di Mazar- E- Sharif. E io, perplessa, rigiro tra le dita la mia rosa.


Kunduz


Tascurgà

Dal diario di Mariola: "Al bazar ci imbattiamo in un mago con un pellicano morto; vorrebbe il mio orologio per dimostrarci che lo rompe e rifà, tira fili da una parte all’altra della bocca, si mette un ditale in testa e lo fa uscire dal ginocchio. Noi abbiamo un trattamento di favore: un soldato afghano fa largo davanti a noi perché possiamo vedere bene.