Ospiti nel deserto
Nella fotografia di gruppo io sono in fondo, mi riconoscete? Ho in testa il velo bianco con il bordo ricamato comprato in Etiopia. Ce l'ho ancora: è un tessuto fragile e morbido, della consistenza di una benda, ma sulle donne etiopi era bellissimo. A me stava meno bene, ma mi era stato utile durante il viaggio per arrivare in Sudan, viaggio che avevo fatto sul tetto del treno, dove mi ero rifugiata insieme a passeggeri, tutti uomini, dopo aver lasciato all'interno i miei più pavidi compagni di viaggio. Nella foto ci sono anche due di loro: Mariola, a capo scoperto, è seminascosta dalla donna a sinistra, mentre Giulio, con ciuffo, barba e berretto bianco è ben riconoscibile. Non ricordo chi fosse il signore che ci aveva invitato nella sua casa nel deserto, ma doveva essere una qualche autorità locale. Era stato un invito come si deve, con cena servita dalle donne - sennò invisibili – che stavano al lavoro in cucina mentre noi ospiti ci intrattenevamo con il capo famiglia. Non so perché, ma a un certo punto il nostro ospite se venne fuori con l’affermazione che, se non c'erano eredi, il motivo era la sterilità della donna, da cui il diritto de marito a prendersi un’altra sposa. Io però avevo protestato: la “colpa” poteva essere dell'uomo. Rivedo chiarissima l’espressione stupefatta che si disegnò sul viso largo e onesto del nostro interlocutore che probabilmente non riusciva a capacitarsi di tanta sfacciataggine: come poteva una donna, per di più giovane, permettersi di contraddirlo e di tenere in pubblico e davanti a omini discorsi tanto scandalosi? Nonostante l’incidente diplomatico la cena, servita in un unico vassoio, fu eccellente, la notte, passata sulle brande messe a nostra disposizione, si rivelò più fresca di quanto aveva lasciato supporre la calura della giornata che l’aveva preceduta, e l’alba fu un incanto: a poco a poco, nella luce rosata, riappariva il deserto che la sera prima, arrivati con il buio, avevamo solo immaginato. La casa in cui avevamo dormito era un’aerea circondata da un muro dello stesso colore della sabbia. Purtroppo all’interno c’erano toilette e bisognava accoccolarsi al di là appunto di quel muro.
Non so come raggiungemmo la stazione o la fermata dei bus o l’imbarcadero sul Nilo, ma di certo in qualche maniera ci arrivammo. Al nostro ospite poi mandai le fotografie del nostro incontro, come facevo sempre, pur sapendo che non avrei ricevuto risposta: non sono mai venuta a sapere se quelle lettere fossero mai arrivate a destinazione.
Del battello che scendeva il Nilo ricordo l’acqua, non quella del fiume, quella che ci venne messa a disposizione nella giara a prua. Forse fu quell’acqua che causò il tifo di Gianfranco, ce invece risparmiò gli altri. E poi un episodio angosciante: l’uomo mi aspettava fuori del bagno impedendomi di uscire. Chiusa dentro, non sapevo che fare. Mi misi a chiamare i compagni, ma nessuno sentì. L’uomo da fuori sussurrava parole di invito in un farfugliato inglese. Mi salvò l’arrivo improvviso di un passeggero che mi liberò dal mio aspirante stupratore.
La foto sotto è stata scattata a Wadi Halfa. Decisamente soffrivamo il caldo.